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Approfondimenti
In base al Decreto «Salva Italia», fornire dati falsi all’Amministrazione finanziaria può comportare la reclusione fino a tre anni
Rilevanza penale a tutto campo nel rapporto tra Fisco e contribuente
Questo almeno sembrerebbe essere il riflesso che discende dal disposto del comma 1 dell’art. 11 del DL 201/2011, considerata dal Governo una delle norme qualificanti del decreto, tanto da meritare espressa menzione e sottolineatura, in sede di presentazione del provvedimento e di dibattiti televisivi, da parte del Viceministro dell’Economia Grilli e del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Catricalà.
In base alla richiamata disposizione, chiunque esibisca o trasmetta atti o documenti falsi in tutto o in parte, oppure fornisca dati o notizie non rispondenti al vero, a seguito di richieste avanzate dall’Agenzia delle Entrate o dalla Guardia di Finanza, nell’ambito, tra le altre ipotesi, di questionari, inviti al contraddittorio, accessi, ispezioni o verifiche, è punito ai sensi dell’art. 76 del DPR 445/2000.
In altre parole, tutto quello che viene esibito, trasmesso o comunque notiziato al Fisco, a fronte di una sua richiesta, assurge a vera e propria autocertificazione, con quel che ne consegue in termini di punibilità con la reclusione fino a tre anni.
Il “salto di qualità” deciso dal Governo è impressionante, se si considera che sino ad oggi l’unica produzione documentale punita penalmente (con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni) sembrerebbe quella consistente nell’utilizzo di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, “quando tali fatture o documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie, o sono detenuti a fine di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria” (art. 2 del DLgs. 74/2000).
Per le reticenze e le omissioni del contribuente, in sede di risposta a questionari o inviti a contraddittori, risultava applicabile solo la sanzione amministrativa da 206 a 1.032 euro, prevista dal comma 1 dell’art. 11 del DLgs. 471/1997.
Al di là di valutazioni sull’opportunità o meno di questo radicale cambio di impostazione, è indiscutibile il fatto che la nuova previsione determina la piena “penalizzazione del rapporto tributario”, non nel senso che lo penalizza, ma nel senso che lo rende penalmente rilevante a 360 gradi.
La genericità dell’assunto normativo è tale che, paradossalmente, anche la produzione di una dichiarazione dei redditi, a fronte di una richiesta del Fisco nell’esercizio dei poteri di cui agli artt. 32 e 33 del DPR 600/1973, potrebbe, a determinate condizioni, divenire presupposto di contestazione penale ex art. 11 comma 1 del DL 201/2011, ove si rivelasse infedele anche per importi minimi.
Al di fuori di questa ipotesi, per integrare i presupposti del reato di dichiarazione infedele ex art. 4 del DLgs. 74/2000 era ed è tuttora necessario che l’imposta evasa sia superiore a 50.000 euro e che la base imponibile non dichiarata sia superiore al 10% di quella indicata in dichiarazione e comunque a 2 milioni di euro.
Meglio privilegiare, ove possibile, il diniego di collaborazione
Al di là delle petizioni di principio sulla necessità di una sempre più ampia collaborazione tra Fisco e contribuente, è facilmente prevedibile che, da parte di quest’ultimo e dei professionisti che lo assistono (i quali potrebbero rischiare anch’essi di essere appresi ai profili di responsabilità penale previsti dalla norma in commento, ove trasmettano, esibiscano o forniscano dati e notizie per conto dei loro clienti), diverrà inevitabile porre la massima attenzione sulle richieste informative cui dare seguito, privilegiando, ove possibile e legittimo, un diniego di collaborazione che potrebbe riservare conseguenze ancora peggiori e nel quale, evidentemente, il Legislatore non crede.
Da questo punto di vista, appare centrale il disposto della lett. f) del comma 1 dell’art. 7 del recente DL 70/2011, convertito nella L. 106/2011, ai sensi del quale “i contribuenti non devono fornire informazioni che siano già in possesso del Fisco e degli enti previdenziali ovvero che da questi possono essere direttamente acquisite da altre Amministrazioni”.
In altre parole, appare legittimo e senz’altro comprensibile, ove non addirittura consigliabile, il comportamento del contribuente che, in sede di richieste di dati, notizie e documenti esercitate dall’Amministrazione finanziaria ex artt. 32 e 33 del DPR 600/1973, opponga il suo diritto di non esibire, trasmettere o fornire alcunché, ogniqualvolta si tratti di informazioni concernenti, a mero titolo esemplificativo, documentazione fiscale già presentata, bilanci depositati presso il Registro delle imprese, beni immobili, beni mobili registrati e, alla luce delle recenti novità, qualsivoglia rapporto con intermediari finanziari.